Quando si entra nel Ghetto dal ponte
di ferro che lo unisce alle fondamenta
Ormesini e La Misericordia
-c’è chi direbbe forse che li separa-
si è avvolti e sopraffatti lentamente
da quella chiara sensazione acuta
di essere un piccolo topo. Bianco,
con gli occhi rossi e coda senza fine
(che scorre ancora giù per i gradini
mentre il resto del corpo già riposa
sul pavimento in pietra della piazza).
Non si può fare a meno di annusarlo,
di attraversalo a passo minuzioso,
toccando le pareti con le mani
come se ci servissero a vedere.
Percorrere il poligono spezzato
della struttura irregolare, adagio,
poco a poco catturati e posseduti
da piccoli andirivieni di indeciso
roditore. Soffermarci con pazienza
sul bassorilievo tanto potente
nell’evocazione quanto inutile nella speranza
(quel treno così pieno di persone
che non son mai tornate e la lista
di nomi e cognomi silenziosi).
I cani vanno a spasso coi padroni
scrollandosi di dosso a volte l’aria
di essere annoiati con un gesto
infantile: uno strattone al guinzaglio,
un latrato senza eco, un grugnito.
Anche se suscitano gran tenerezza
in quelli che li guardano, nascondono
in qualche piega oscura della faccia
una dura minaccia che ci turba.
Degli alberi scheletrici ricercano
resti di qualche nido fra i propri rami.
San Michele sbuffa da lontano
(non troppo lontano) e la vita
porta alle foglie sotto strana forma.
Traduzione di Linda Grassi